DALLA SCELTA DEGLI SCRITTI DI GINO NOVELLI, TRACCIA IL SUO PENSIERO E IL SUO PROFILO DI UOMO

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      Le celebrazioni del centenario della nascita di Gino Novelli, indette dal Comune di Barrafranca, mi hanno fatto accostare all’opera e alla vita di questo poeta e scrittore.  Ho scoperto, anzi riscoperto, un nostro poeta di cui appena sapevo il nome, ma che era conosciuto, apprezzato e stimato da letterati e critici nazionali.
     Gino Novelli, pseudonimo di Gaetano Ciulla, nacque a Barrafranca il 10 Aprile del 1899 da una famiglia benestante. Suo padre era il notaio Calogero Ciulla e la madre Stella discendeva dalla famiglia Ingria, una delle più note del paese. Dopo la fanciullezza trascorsa a Barrafranca, sposò Teresa Ippolito, con la quale abitò a Palermo, dove partecipò attivamente alla vita letteraria, facendo il capo redazione della rivista di Storia, Filosofia e Letteratura “Tradizione” e fondando la rivista di poesia “Lumi”, di cui fu direttore. Ma un fatto doloroso colpì la sua vita: la morte della moglie, dalla quale aveva avuto due figli Angelo e Calogero, (Ninì e Giugiù, come egli affettuosamente chiamava). Si trasferì quindi a Barrafranca ove, nella pace e tranquillità del paese natio, si dedicò completamente al suo lavoro di letterato. Collaborò con alcuni quotidiani siciliani e nazionali, come “Il Giornale di Sicilia”, “La Sicilia”, “L’Avvenire d’Italia” e “L’Osservatore Romano”. Nel 1962 si stabilì a Catania, dopo avere sposato la signora Concettina Tirone, ed in questa città visse fino alla morte, avvenuta il 12 Aprile del 1975.   
    Di salute cagionevole, soffrì molto a causa delle sue malattie tra cui una fastidiosa bronchite, che man mano andò acuendosi fino a togliergli ogni interesse anche per l’attività che costituiva la ragione della sua esistenza. Gli ultimi due anni della sua vita egli non scrisse più ed è famosa ed emblematica la frase che una volta pronunciò: “Gino Novelli è morto, ora si aspetta la morte di Gaetano Ciulla”.
     Per cancellare ogni traccia dello “scrittore e del poeta”, distrusse molti suoi
manoscritti e le lettere che lo legarono ai letterati e agli uomini più cari e più
importanti del tempo quali Salvatore Quasimodo, Giorgio La Pira, Piero
Bargellini e molti altri. Questa corrispondenza epistolare era il filo che lo legava al mondo culturale nazionale ed internazionale e il modo per dialogare con persone che potessero capire ed apprezzare la sua attività poetica e letteraria , per non rimanere soffocato dalla immobilità della vita paesana, priva di interessi e di stimoli culturali.
     Per volere dei parenti dopo la morte, il suo corpo fu seppellito a Barrafranca
dove riposa all’ombra dei cipressi del piccolo Cimitero, reso celebre dal suo racconto
“Tutti là…”.
    Due sono i motivi ispiratori , che si intrecciano, a volte rivelandosi
in modo predominante, altre volte velandosi in modo discreto, nella sua produzione letteraria: la religiosità e il dolore.
            La religiosità è sentita e vissuta come ragione di vita e pervade tutte le sue azioni, i suoi atteggiamenti ei suoi pensieri. E’ inculcata in lui, fin dalla più tenera età, dagli insegnamenti della madre e rimarrà come convincimento profondo per tutta la vita.
     La sua concezione religiosa è riassunta nella pubblicazione “L’istanza del
divino oggi”, in cui il Novelli conclude che “la religiosità deve essere non 
testimonianza di parole, ma di opere, in ispirito di totale servizio. Non parlare, ma vivere, in una documentazione quotidiana, intellegibile anche dai più lontani e ignari, della autenticità del Cristianesimo. Lasciar penetrare il Mistero della nostra vita, fino ad essere fatti noi stessi mistero agli altri.” Negli altri scritti il sentimento religioso riaffiora sempre, ora come riscatto di vita, ora come testimonianza di richiamo divino, riecheggiato particolarmente dal suono delle campane, o dal ricordo infantile degli Angeli.
  Il dolore fa parte della vita del Novelli, il quale con l’avanzare dell’età e con
l’acuirsi dei malanni, sente aumentare in intensità nel fisico, tanto da fargli
affermare che il suo letto, in certe notti insonni, è pieno di patimenti. La sofferenza però non è vissuta disperatamente e inutilmente, ma è accettata in modo cristiano e rassegnato, come causa di espiazione e come sacrificio per acquistare una vita migliore. In molti suoi scritti è presente il concetto del patimento, ora gridato in
modo straziante, ma sempre contenuto e mai disperato, ora soffuso in una vena
malinconica che tutto avvolge come nebbia.
         Nelle opere, e in particolare nelle sue poesie, acquista una peculiare importanza l’uso della parola. Come scrive Guglielmo Lo Curzio “le parole acquistano una loro essenziale profonda purezza, un loro mero valore di vibrazione umana e di umile trasparente configurazione. Nessuna lusinga verbale, nessun abbaglio prezioso nessun inganno letterario: un semplice, scarno quasi disadorno discorso, che prende efficacia, forza, luce da un intimo fuoco che riscalda o infiamma le parole, le riverbera di contenuta eppur drammatica commozione, le illumina e solleva in un
clima di poesia”.Parole dunque le sue dal significato pregnante e pieno di emozioni.
          Molti altri sono i contenuti che emergono dalla sua attività di narratore, critico, saggista, giornalista e soprattutto poeta. Citerò solo quelli più importanti come il problema della guerra, che lui aborriva in un anelito di pace; il disprezzo per “la mediocrità e il compromesso di tanti cattolici – o pseudo tali -, impegnati nella vita pubblica che mostravano invece la debolezza e la superficialità del loro carattere e la disonestà e le ingiustizie nel loro operare;” la sua concezione del Comunismo visto sia come partito politico che come idea filosofica contraria al Cristianesimo.
          Leggendo in particolare le sue poesie si scorge un altro tema che è presente costantemente: la nostalgia delle cose amate e delle cose di ogni giorno, che acquistano nuove dimensioni e si trasfigurano. Si potrebbero  definire perciò poesie delle piccole cose, (gli oggetti della sua stanza, il letto, i mobili, la finestra, le persiane…), che sembrano inutili, ma che vengono trasformate e immerse in un mondo nuovo, tutto intimo e personale. Poesia la sua piena di pianto e di rimpianto immersa in un’atmosfera sospesa tra terra e cielo.
           Quanto affermato sopra, scaturisce dalla descrizione del suo paese e della sua terra, in cui traspare tutto l’amore che egli prova per i luoghi della sua fanciullezza.
     Soprattutto sono descritti la vallata di “sottoserra” con il “costone”, la
cappelletta del “Signore Ritrovato”, le contrade “dell’Albana”, di “Camitrici” e di “Friddani” e la salita della “Catena”…
      “La vallata di sottoserra sembra marina, perché c’è la nebbia che sale
azzurrognola e soffice, e laggiù Monte Navone e Monte Pizzuto emergono, come scogli ciclopici.”
             “La luna alta, bianca governa la nottata e dà respiro agli alberi e ai corsi d’acqua che abbondano nei pendii di tanti colli: Friddani, Camitrici, Albana.”
               “Le cicale fremono nei grandi platani di Villa Agatina e le colline degradano verso Pietraperzia. In qualche punto, imprecisato, oltre le colline si stendono i vasti prati dell’ Albana, dove passai l’infanzia e ancora il ricordo conserva la presa sugli affetti lontani.”
               “Lasciata la ‘Catena’ dove la strada si biforca per Piazza Armerina e Barrafranca, c’è l’ultimo chilometro che porta al mio paese. Un chilometro di salita, ma che si fa in un soffio.”
               Egli non disdegna di nominare il suo paese nelle sue poesie (“Barrafranca, piccolo paese dimenticato…”), ricordando anche i punti a lui familiari, (la piazza con il campanile, la sua casa, la sua via…) e questo è il più grande atto di amore che un barrese possa fare al suo paese natale, diffondendone un’immagine positiva e piena di poesia. La Barrafranca che egli descrive è quella della sua fanciullezza cambiata dalla visione gioiosa dei ricordi più belli, in cui i gli ambienti acquistano una dimensione sognante per la presenza delle persone più care, come la mamma, la nonna, le zie, la moglie, i figli….In molti suoi scritti c’è la descrizione del ritorno alle contrade amate da bambino e la delusione di non trovarne più l’antica familiarità; posti ormai estranei per lui divenuto adulto, anche per l’assenza dei componenti della sua famiglia.
               Ed ecco un altro tema prediletto dal Novelli, quello della famiglia, sentita come porto di pace, i cui membri si sostengono reciprocamente in un afflato di amore cristiano, fino a compiere, se necessario, dei sacrifici per il bene degli altri.
            Come ho detto prima egli era in corrispondenza ed aveva contatti con le più alte figure letterarie del suo tempo e con personaggi importanti di altre nazioni. A queste personalità illustri egli non nascondeva di essere nato in un piccolo paese della Sicilia;  non si vergognava di essere barrese e siciliano, ma ne era fiero perché capiva ed apprezzava la bellezza della sua terra. Egli definiva la Sicilia: “Terra ardente e dolorosa, dove anche i contadini sono diversi dagli altri contadini. Hanno facce pensose, tristi, che si rischiarano solo quando le spighe sono ricolme e i solchi fumano come incensieri”. Soprattutto egli celebrava il profumo della Sicilia caratterizzato dall’odore della zagara e delle arance.
             Dopo aver letto, approfondito e gustato l’opera letteraria di Gino Novelli, ho riscoperto una nuova immagine della Sicilia e soprattutto del mio paese, Barrafranca, filtrata e purificata dalla visione poetica dello scrittore, che io considero un letterato degno di essere valorizzato. Per testimoniare la validità della sua opera basterebbe citare, oltre a quello di molti altri, il giudizio che il grande poeta Salvatore Quasimodo, premio Nobel per la letteratura, suo contemporaneo, espresse su di lui, definendolo non a torto “Maestro della penna”.  
                                                  Pietro Vicari